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Se il 2020 è stato un annus horribilis per la Terra, sferzata dalla prima vera pandemia globale, bisogna riconoscere che l’estate del 2021 ha segnato un punto particolarmente doloroso in termini di emergenze di diversa natura: basti pensare ai drammi dell’Afganistan, abbandonato a gestire impreparato una transizione socio-politica in un clima di violenze e sopraffazioni, o al vergognoso fenomeno degli incendi estivi, che ha raggiunto i limiti dell’autolesionismo umano, aumentando il carico di eredita passive a danno delle future generazioni, sulle spalle delle quale lasciamo accumulare giorno dopo giorno il difficilissimo rebus della sostenibilita ambientale e umana del pianeta. Sullo sfondo, ancora, le nuvole nere del Covid-19 e di una gestione che, tra varianti e ricadute, si profila tutt’altro che semplice, soprattutto a breve termine.
Si dice spesso “fare la gavetta”, ma quasi mai ci si sofferma sull’origine del termine, mutuato dal gergo militare, secondo il quale “la gavetta” è la scodella destinata al rancio dei soldati. Usata estensivamente, l’espressione non si riferisce tanto al fatto di “guadagnarsi il pane”, quanto all’idea di passare attraverso i gradi più umili per poi arrivare a quelli di ufficiale.
A maggio 2021 la musica italiana ha pianto la scomparsa di due artisti indimenticabili, Milva e Franco Battiato, e ha visto fiorire sul palcoscenico internazionale il successo dei Maneskin, trionfatori all’Eurovision Song Contest 2021 dopo aver vinto Sanremo: quasi una staffetta generazionale, con un ritorno prepotente al rock del giovane gruppo romano, che dà voce ai sentimenti di tanti ragazzi che urlano di essere “fuori” da un sistema che fatica a riconoscerli e valorizzarli, e li vorrebbe “Zitti e buoni”.
I velocisti sanno bene che non si alzano mai le mani prima del traguardo e, poiché c’è ancora parecchia strada da fare per parlare di ripresa nel nostro settore, accogliamo le riaperture con la moderazione che – più che la scaramanzia – ci suggerisce l’esperienza. Innanzitutto, perché le stesse misure di riapertura non hanno consentito ad una parte delle imprese di tornare a lavorare.
Chi conosce i Pubblici Esercizi Italiani sa che e un mondo popolato di personaggi estroversi, non di rado carismatici, per la grandissima parte socievoli, e comunque fortemente consapevoli dell’importanza dell’aspetto relazionale del mestiere.
Un po’ come le giornate di primavera che fanno capolino in coda ad un lungo inverno, una luce sulla ripartenza del settore era sembrata accendersi in queste settimane, con l’allargata condivisione, anche politica, sulle possibilità della riapertura serale dei ristoranti nelle regioni gialle. Poi, la brusca gelata. La spiegazione a tutto questo affonda ormai solo in un radicato pregiudizio e nella enorme difficoltà che richiede assumere decisioni razionali in situazioni emergenziali.
Nel mezzo di una situazione – sanitaria, economica, sociale e anche psicologica – che rimane drammaticamente complessa, si è avviato il cammino del Governo Draghi, che sembra intercettare le speranze e dare nuova fiducia al Paese, grazie sia all’indiscutibile caratura e carisma del Presidente del Consiglio, sia alla vastissima base parlamentare che lo sorregge e che dovrebbe ripararlo dagli agguati e dai ricatti tipici della (cattiva) politica.
Settantotto sono i giorni di chiusura in cui i Pubblici Esercizi italiani hanno dovuto abbassare serrande, primi ad essere chiusi e ultimi ad essere ri-aperti, impediti a servire anche un solo cliente, mentre questo stesso cliente poteva stare in fila in un supermercato. Inoltre, gli stessi Esercizi sono stati sottoposti ad uno stillicidio di provvedimenti nazionali, regionali e, in alcuni casi, locali: chiusura alle 24, anzi no alle 23, ancora no alle 22
e poi alle 18 e, infine, chiusura totale, ma solo nelle zone rosse e arancioni. Infine, le Feste Natalizie, raggiunte in un’altalena di indiscrezioni, ripensamenti e devastante incertezza, con il nuovo blocco totale arrivato solo in prossimità del Natale.
La pandemia in corso ci presenta mese dopo mese un conto umano, sociale ed economico che sembra diventare esponenziale. FIPE stima che, alla fine di questo periodo, 50mila imprese chiuderanno, costrette – in molti casi – ad una procedura fallimentare dalle ben note conseguenze sulle loro famiglie, sulla rete dei loro fornitori, sui loro dipendenti e sulla reputazione degli stessi imprenditori.
Una nota canzone di Lucio Battisti – Con il nastro rosa, 1980 – ripeteva: “chissà che sarà di noi, lo scopriremo solo vivendo”. Se lo chiedono oggi anche i Pubblici Esercizi italiani, con l’incognita supplementare che sul mondo della somministrazione incombono nubi talmente nere, tra limitazioni di orario, coprifuoco, incertezza e insufficienza degli aiuti, da non renderne pacifica la stessa sopravvivenza. Tante imprese, tra bar, ristoranti, pub e discoteche, insomma, rischiano di non avere il tempo utile per vedere cosa sarà di loro, perché avranno chiuso i battenti.