“Disarmare le parole per disarmare le menti per disarmare la terra” è stato l’ultimo appello di Papa Francesco, spesso richiamato in questi mesi per sostenere le lodevoli iniziative per promuovere atti di pace in un contesto internazionale sempre più orientato a ricercare le guerre.
Sembra forse ingenuo concentrarsi su una questione di linguaggio di fronte agli oltre 50 conflitti armati attivi oggi nel mondo, tra cui l’immane tragedia di Gaza, eppure questo insegnamento coglie un punto profondo dell’umano e della sua possibilità di agire nel mondo. Le parole sono l’inizio di tutto (lo dice anche la Bibbia, che al “Verbo” riconduce l’origine della creazione) e in qualche modo formano la realtà.
Le parole che scegliamo sono il primo perimetro che attribuiamo al mondo, il primo contenuto sul quale portiamo la nostra attenzione e quella di chi ci ascolta. La contemporaneità, e le sue tecnologie, se hanno ampliato la possibilità delle persone di “prendere parola” e avere una voce, hanno portato anche un decadimento della parola, sempre più usata per offendere o dividere, piuttosto che per migliorare attraverso la dialettica o unire le persone grazie al dialogo.
Aldo Grasso ha osservato con acutezza che “da quando esistono i social chiunque ha diritto di manifestare la sua irrilevanza”, constatazione che ha negli odiatori della tastiera i portatori patologici di un degrado nel linguaggio. Ma il linguaggio dell’odio non è solo cosa da leoni da tastiera: pensiamo al clima di violenza e di maleducazione che regna sugli spalti dei tornei giovanili, dove gira tra gli istruttori una frase tremendamente vera “Una squadra perfetta? Tutti orfani!” originata dal comportamento dei genitori dei giovani calciatori che danno pessimi esempi, allontanando poi i loro figli dai veri valori dello sport -la disciplina, l’impegno, il rispetto, il fair play, l’accettazione della sconfitta- e, di conseguenza, anche da quelli della vita.
Infine, impossibile non pensare proprio al mondo dei pubblici esercizi, fatto di contatto con il pubblico con un’esposizione crescente a maleducazione e scortesia propense a scambiare il nobile concetto (e arte del) “servizio” con una nuova forma di “servitù” che pretende perché paga.
Quanta differenza tra chiamare un cameriere per nome o trattarlo come invisibile mentre si prende cura di noi. Diceva il Padre gesuita Francesco Occhetta in un bel passaggio a cui ho potuto assistere di persona “bisogna tornare a classificare le persone non per categorie ma per nome”.
Spostando ancora l’attenzione sul web, l’esplosione delle recensioni on-line fraudolente, false, acquistate o sponsorizzate stanno facendo danni economici o reputazionali gravissimi a tanti nostri operatori, impotenti e senza difesa rispetto ad un fenomeno di vera inciviltà, che solleva anche una questione etica, perché inquina i valori sociali di onestà, affidabilità e trasparenza.
Ecco, quindi, perché “disarmare le parole” non è un generico omaggio al perbenismo o al politicamente corretto, ma la giusta volontà di seminare nella società la cultura di ambienti umani (e digitali) che offrano spazio al dialogo e al confronto, bonificando le relazioni dai pregiudizi, dal rancore, dall’aggressività e dall’odio, che spesso poi degenerano in atti di violenza o portano ai conflitti armati.
“Le parole sono finestre (oppure muri)”, la meravigliosa poesia di Marshall Rosenberg pioniere della “Comunicazione Non Violenta”, esprime la morale (e la differenza) del linguaggio, che può erigere ponti o barriere tra le persone e i popoli.
