Che l’Italia sia molto più grande ed importante dello stretto stivale con cui la identifichiamo sulla cartina, è un fatto riconosciuto anche a livello internazionale, considerazione cresciuta nel tempo sulle qualità che il Paese ha saputo esprimere in ogni campo, anche nelle situazioni più complesse.

Basti pensare alla perfetta organizzazione dei funerali di Papa Francesco, che ha visto l’arrivo a Roma di molti Capi di Stato e una concentrazione unica di pellegrini che avrebbe potuto generare seri problemi di temi della sicurezza. Tutto, invece, è andato per il meglio e non per fortuna, quanto per una capacità di presidio e cura anche dei dettagli che fanno sempre la differenza.

Di questi risultati, e di altri, dovremmo essere orgogliosi, mentre invece il Paese soffre da tempo di una negatività diffusa, che avvelena, alimenta pessimismo, impigrisce e frena ambizioni, portando a sottovalutare le nostre grandi capacità e potenzialità in ogni campo, con la conseguenza poi di alimentare il flusso emigratorio di oltre 700 mila giovani che hanno lasciato l’Italia perché evidentemente non vedono futuro.

Londra -con circa 400 mila italiani residenti- è diventata la quinta città italiana per popolazione: è un dato emblematico e preoccupante, che rischia di aggravare la profonda nostra crisi demografica, che si trasforma in insostenibilità sociale, debolezza culturale e in stagnazione imprenditoriale.

Per invertire questa pericolosa tendenza si deve ritornare a credere e a voler bene all’Italia, come ha voluto appassionatamente invitarci il Prof. Massimo Bray, già Ministro della Cultura e del Turismo e attuale Direttore della Treccani, intervenendo alla celebrazione per gli 80 anni di Confcommercio, offrendo alle prossime generazioni il piacere di vivere, le opportunità di lavorare e gli ideali per credere nella grandezza dell’Italia, evitando di contrapporci su ogni dettaglio, perdendo così la visione complessiva ed unitaria del nostro futuro.

L’Italia occupa solo lo 0,53% della superficie mondiale e ha il 60% delle bellezze culturali del mondo, con 4.492 siti museali, rispetto ai soli 453 della Francia, nostro competitor che ha una ben diversa consapevolezza e organizzazione sul tema dell’identità nazionale. Per stare in campo enogastronomico, i vitigni italiani riconosciuti sono circa 1.100, mentre quelli francesi solo 223 e abbiamo eccellenze uniche al mondo: l’aceto balsamico, il parmigiano reggiano o il gorgonzola, il tartufo bianco, 538 cultivar di olive, lo zafferano, le mandorle o i pistacchi e adesso riusciamo addirittura ad esportare il caviale.

In aggiunta abbiamo la lingua più bella e ricca del mondo che non viene curata, artigiani ancora capaci di battere l’oro a caldo, di produrre tessuti con i quali la moda italiana ha conquistato mercati, teatri come la Scala ammirati nel mondo, e in generale un arsenale socio-culturale” senza paragoni che testimonia la grandezza dell’Italia, che non sempre noi italiani ci riconosciamo.

 Per questo, è oggi più importante che mai evolvere da un concetto puramente commerciale di “Made in Italy” in quello più generativo di “Sense of Italy”, incorporando così la storia, le emozioni, le intelligenze che hanno alimentato la nostra cultura anche d’impresa, con i commerci e i traffici avviati nel tardo Medioevo da Marco Polo, che ha precorso il cambiamento nei costumi e nelle ideologie dei tempi, portando e creando ricchezza e bellezza.

La complessa genesi storica del nostro Paese ha indotto processi di innovazione diffusa, cresciuta nel tempo sulle necessità, sulla stratificazione e contaminazione delle culture, sulla nostra genialità e fantasia, che si traduce in una diffusa capacità di pensare fuori dagli schemi, nel “senso dell’italianità”. Una dote di innovazione continua e di capacità di resilienza che ci riconoscono nel mondo e che dobbiamo oggi concederci il coraggio di riconoscere, finalmente, anche a noi stessi.